mercoledì 18 agosto 2010

La sinistra, roba da ricchi

In Fortunes of Change: The Rise of the Liberal Rich and the Remaking of America, David Callahan sostiene una duplice tesi, secondo la quale negli ultimi anni i ricchi avrebbero sostenuto economicamente i democratici più che i repubblicani, mentre le scelte politiche dei democratici si sarebbero spostate sempre più "a sinistra",  vale a dire su orientamenti più liberal. 
James Ledbetter, su Slate, riporta l'analisi di Callahan e ne confuta la seconda parte, con argomenti decisivi: certo, la nuova generazione di ultramilionari americani si è arricchita in settori legati all'economia della conoscenza, alla finanza e alle comunicazioni, proviene in buona parte da università delle due coste dall'orientamento liberal, e ciò produce indubbiamente due conseguenze fondamentali. Da un lato, rispetto alla precedente generazione di capitani d'industria, le loro priorità sono meno per la deregulation dei mercati e per le politiche antisindacali e più per lo sviluppo di una serie di caratteristiche che possono essere prodotte solo da un governo efficiente e ben presente, come una forza lavoro qualificata, buone infrastrutture e mercati affidabili; dall'altro, questa nuova generazione ha un orientamento culturale progressista verso le questioni di genere, la società multietnica, i temi ambientali.
Tutto ciò, nel panorama politico americano, è in linea con le proposte dei democratici. Ma sui temi più classicamente sociali ed economici, dalla spesa militare ai diritti dei lavoratori, da una distribuzione equa dei sacrifici in tempi di crisi all'applicazione di politiche ambientali restrittive per l'industria, i democratici hanno sistematicamente sposato la linea dei repubblicani. In altre parole, non esiste alcuna differenza tra i due maggiori partiti quando si tratta di favorire il capitale, e soprattutto il grande capitale: lo mostrano i salvataggi della finanza, a cui l'attuale governo democratico si è prestato con estrema generosità e senza negoziare alcuna contropartita reale, anche a costo di sfidare l'indignazione dell'opinione pubblica.
Tutto ciò non è privo di interessi per la situazione italiana: qui non si ha certo a che fare con una generazione di imprenditori innovativi, giovani e aperti, ma con un gruppo di potere che sfrutta rendite di posizione e accordi incestuosi tra impresa, finanza e politica. Se anche in Italia i due poli, che sono ampiamente sovrapponibili ai due maggiori partiti americani, fanno a gara nel facilitare la vita alle imprese e a liberarle da ogni vincolo sociale, è difficile pensare che i grandi ricchi italiani siano interessati a un'offerta culturale progressista, che del resto l'attuale partito democratico è ben lungi dal proporre. Se non altro per motivi utilitaristi, allora, sarebbe il caso di spostare le proprie attenzioni verso blocchi sociali diversi, e magari anche di proporre opzioni politiche differenti dall'infruttuoso corteggiamento dei quattrini.

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