lunedì 23 agosto 2010

Individuo a chi?

Siamo portati a pensare che ogni essere umano sia dotato di coscienza e personalità, per il solo fatto di esprimersi attraverso il linguaggio: che lo si veda coinvolto nella prospettiva religiosa dell'economia della salvezza o in quella illuministica dell'adesione a una massima morale che ne orienti il giudizio e le azioni, si dà sempre per scontato che vi sia un piano di responsabilità a cui aderisce a pieno titolo. Tutto ciò trova la sua espressione più neutra e razionale, e pertanto più adatta a metterne a nudo il nucleo metafisico e l'astrazione fondante, nella nozione di individuo, inteso come il residuo sostanziale ineliminabile di un processo di divisione: l'individuo, dunque, sarebbe il costituente primo e la base concreta di ogni aggregato, e dovrebbe pertanto essere dotato, ontologicamente, di tutte le proprietà che si riscontrano, in forme più complesse, nell'aggregato sociale stesso.
Se questa concezione ha il pregio di essere intuitivamente semplice, essa sembra presupporre un po' troppo: la coscienza, per definizione, descrive una forma relazionale, con la quale un soggetto stabilisce un rapporto con un altro da sé, e a partire da questa alterità si costituisce come se stesso. Per esplicitare meglio la questione, le modalità di formazione della coscienza attraverso gli sviluppi dell'esperienza percettiva e dell'autocoscienza nella duplice configurazione storica della lotta per il riconoscimento e del lavoro, per come sono descritte nella Fenomenologia dello spirito, possono fare tranquillamente a meno di ogni ipostasi ontologica. 
In questo modo, riconducendo le strutture della coscienza a una dialettica costitutiva e a un piano relazionale che non si esaurisce nella costituzione dell'individuo, diviene possibile raggiungere due risultati estremamente significativi: in primo luogo, si elimina il bisogno di riferirsi a condizioni date trascendentalmente, con tutto ciò che comporta in termini di dottrina dell'anima o di attributi generali, che a loro volta dovrebbero ricollocare l'individuo come semplice caso individuale di una specie universale (come accade definendo la coscienza come attributo "umano").  In secondo luogo, viene meglio rispecchiata la forma relazionale e la struttura pragmatica della coscienza, il cui ambito di pertinenza è sempre intersoggettivo e storico, anzi, formatore della storia stessa. La coscienza come processo e come risultato, dunque come realtà pragmatica, è tanto il prodotto di una formazione quanto il soggetto che agisce una formazione, oggetto sociale e soggetto collettivo.
A queste condizioni, la coscienza non è più un attributo dell'individualità, ma un prodotto in continua evoluzione, la cui datità non può essere scontata. Ciò significa che essa non è più un attributo esclusivamente umano, nel duplice senso che non a tutti gli uomini può essere attribuito un uguale grado di sviluppo della coscienza e che esso può essere riconosciuto anche agli animali, per lo meno come consapevolezza della propria esistenza e delle proprie azioni. Questo paradigma, oltre a rendere superflua ogni concezione trascendente, permette anche di capire come una così gran parte dell'umanità possa vivere senza esercitare alcuna funzione coscienziale evoluta, come la capacità di giudicare le proprie azioni in termini generali o di interrogarsi circa il senso degli eventi.

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