mercoledì 10 settembre 2014

Credo che nella chirurgia plastica si incrocino due elementi di fondo. Il primo è che si tratta di una tecnica, estremamente potente ma che fa, a modo suo, esattamente quello che fanno tutte le tecniche, dal paleolitico in poi: trasforma il dato naturale in funzione di una progettualità culturale (o sociale, se si intende la questione in termini più marxisti). Il secondo dato è che questa trasformazione avviene seguendo una norma, un modello definito, che interviene su quanto vi sia di più proprio all'individuo, il corpo che noi stessi siamo, secondo degli standard di riferimento esterni. 
Trovo importante che questi standard siano definiti in relazione alla vista, vale a dire al senso "teoretico" per eccellenza, quello che ha bisogno di mantenersi a distanza dal proprio oggetto per coglierlo. Il primato della vista nella sensibilità occidentale, per lo meno da Aristotele in poi, si è sempre esplicitamente riferito proprio a questa distanza, che è matrice di oggettività e dunque di oggettivazione, di dominio, di un’estraniazione che permette di progettare la trasformazione (Derrida ha un paio di pagine interessanti in merito, se ricordo bene e Nietzsche ne parla diffusamente, per citare solo due nomi). Fin qui, come dire, tutto bene: la storia, il progresso, lo sviluppo della tecnica, insomma tutta quella roba che ci permette di riflettere sui fenomeni, di comunicare le nostre riflessioni e in particolare di farlo con un medium sofisticato come quello digitale, si situa proprio in questa distanza.
Il punto significativo sta nel carattere della trasformazione e nel suo luogo: il corpo, che viene piegato a una norma in continuo cambiamento, a un canone che non ambisce all’universalità classica (per esempio, quello della statuaria greca, tanto per citare il caso più noto), ma che cambia al ritmo della moda, vale a dire al ritmo di una macchina produttiva che non ha altro fine se non quello di perpetuare se stessa. In questo senso, allora, la chirurgia estetica è il puro dispiegamento di potenza del capitale, che interviene sul vissuto più proprio per dichiararlo cosa sua e operare una trasformazione che genera valore (il corpo rifatto a norma è “più spendibile”) e crea profitto (l’attività della trasformazione avviene come una qualsiasi altra attività capitalistica).
Tornando al tema della norma estetica a cui obbedisce la chirurgia plastica: si tratta di una norma disincarnata che, proprio in quanto oggettivizza il corpo ne ribadisce il preteso distacco dal sé, inteso come la volontà soggettiva di vedere il proprio corpo, appunto come oggetto, di paragonarlo a un modello esterno e di modificarlo di conseguenza, grazie a una prestazione acquistabile sul mercato. Ci vedo una paradossale ascesi che, come ogni ascesi, è profondamente nemica del sesso, e al tempo stesso ne è ossessionata.

lunedì 18 novembre 2013

Adolescenza e prostituzione

Giovane e bella viene annunciato come un film su una ragazza che si prostituisce, e la cosa ha ovvie risonanze con le cronache pruriginose di questi giorni.  Ma, anche se effettivamente al centro di tutto c'è una ragazza che si prostituisce, il tema centrale è forse un altro: si tratta dell'adolescenza, come condizione transitoria e ansiosa, in cui si scalpita per diventare adulti ma non se ne ha, in fondo, questa gran voglia. A ribadire questa chiave di lettura, più che le parole dello stesso Ozon (Le sujet du film, est avant tout : qu'est-ce que c'est que d'avoir dix-sept ans et de sentir son corps se transformer. L'adolescence n'est pas un moment sentimental mais hormonal. Quelque chose de fort physiologiquement se passe en nous et en même temps on est comme anesthésié. Du coup, on violente son corps pour le ressentir et pousser ses limites) vale la poesia di Rimbaud On n'est pas sérieux quand on a dix-sept ans, recitata e interpretata da tutta la classe della protagonista Isabelle nell'unica scena realmente corale di tutto il film, che per il resto ruota esclusivamente attorno a Isabelle, in un'attrazione centripeta che è tutt'uno con l'egocentrismo, se non con il solipsismo, dell'età di passaggio.
Un passaggio che Isabelle vuole compiere con decisione, senza bearsi nell'autoindulgenza di chi agogna la libertà degli adulti senza assumersene le responsabilità: la sua sostanziale solitudine non è una condizione esistenziale, ma l'affermazione di una inadeguatezza, nei ruoli e nelle forme, del rapporto tra sé e il mondo che la circonda. Il passaggio, allora, assume la forma universale della società presente: lo scambio economico, l'acquisizione di denaro attraverso una prestazione, che è sessuale solo perché questa è la forma che le viene offerta. Isabelle non sceglie di prostituirsi e non vi viene costretta ma, semplicemente, ci si trova; non agisce per sfida o provocazione ma per indifferenza, e per trovarsi in un contesto nel quale la sua transitorietà di dispensatrice di sesso a chiamata passa per un accordo preventivo, nel quale lei è, a tutti gli effetti, parte in causa.
Il denaro non è allora il mezzo per procurarsi beni, né il fine per il quale si lavora, ma il segno di una relazione transitoria e codificata, nella quale l'intimità del contatto è tutt'una cosa con la reciproca indifferenza che, proprio per questo, si fa oggettiva, a tal punto che lo stesso segno della relazione - il denaro - diviene oggetto, viene accumulato e non utilizzato, vale esclusivamente come riconoscimento dell'attività svolta che Isabelle, ancora una volta in modo solipsistico, esibisce a se stessa. Non appena l'affare viene scoperto, tutto rientra in un altro schema codificato, quello della ragazza difficile che sconcerta la famiglia, con le autorità pubbliche - polizia e psicanalisi, siamo in pieno territorio foucaultiano, come viene esplicitamente ribadito dalla menzione di sorveglianza e punizione da parte del mite patrigno - che intervengono prontamente e Isabelle rientra nel suo ruolo e nelle pratiche blandamente trasgressive di un'adolescenza standard, benedetta dalla famiglia liberale e moderna.
Proprio quando tutto sembra finito, ecco che la nuova primavera porta il vero passaggio: una relazione umana inattesa, un confronto tra soggetti che si riconoscono tra Isabelle e la vedova del suo ultimo cliente. Una relazione che può essere reale e autenticamente intersoggettiva soltanto perché avviene nel segno di una perdita, di un passato irrecuperabile, che può essere soltanto rielaborato in una reiterazione di luoghi e tempi che ne cambi il segno.
Ecco allora che il passaggio dall'adolescenza all'età adulta si compie nella transizione dal puro presente irriflessivo alla presenza riflessa in un passato che è, insieme, consapevolezza e traccia.

domenica 28 aprile 2013

La casta balena

L'attuale governo è nato dall'insipienza tattica del PD, che aveva in mano tutte le carte per eleggere un ottimo presidente della repubblica e costruire una maggioranza coerente con il mandato ricevuto dagli elettori. Dico insipienza tattica, ma dovrei dire impossibilità strutturale a reggere una manovra decisa e ardita, perché le sue parti non sembrano disposte ad agire in modo compatto: come si è visto dal quarto scrutinio, parlare del PD in modo unitario, come di un partito che prende collettivamente delle decisioni e poi vi si attiene, non ha più molto senso. A queste condizioni, la sola via percorribile era quella di votare Rodotà fin dall'inizio, snidare i franchi tiratori e rischiare la scissione: così come sono andate le cose, la spaccatura del PD è questione di tempo, destinata a essere più subita che agita.
Quello che dovrebbe essere evidente a tutti, infatti, è che ormai si è formato un nuovo blocco di potere, perfettamente rappresentato dall'attuale compagine di governo: l'area ex Margherita del PD, e quella più moderata del PDL, che esclude gli ex AN e persino gli esponenti di provenienza socialista, per rifare un bel monocolore DC con qualche travestimento appena accennato. Questa riedizione del centrismo, sconfitto alle urne e sempre vincitore nelle istituzioni, è il vero tratto caratterizzante di una legislatura che si gioca tutta sul piano della normalizzazione, grazie a una legittimazione reciproca tra i detentori sempiterni del potere, vale a dire la celebre casta, e un raggruppamento settario, incapace di elaborare alcunché al di fuori degli ukase del capo carismatico. Casta e setta esistono l'una in funzione dell'altra e hanno entrambe lo stesso interesse: togliere spazio alla politica.

mercoledì 10 aprile 2013

Strategia e fattore tempo

Analizzare le prospettive strategiche nel loro farsi è un'attività difficile e rischiosa, per tre ordini di motivi. In primo luogo, perché identifica gli attori semplificandoli spesso eccessivamente, riducendoli di necessità a soggetti unitari: la strategia è ciò che dà per scontata la tattica, il che va benissimo quando si ricostruisce a posteriori il senso degli eventi, ma può essere letale nel loro corso. In secondo luogo, questa pratica presume che il quadro sia chiaro, mentre le informazioni, in corso d'opera, sono sempre incomplete e inattendibili. Infine, e questo è l'aspetto di maggiore importanza, perché le motivazioni e gli obiettivi delle diverse parti in causa sono raramente chiari agli osservatori esterni, e spesso non lo sono nemmeno agli attori stessi; ciò vale nella strategia militare, dove almeno a grandi linee non è difficilissimo capire quali siano gli scopi, e vale molto di più nella strategia politica.

Nell'interpretare le posizioni di forza relativa e le possibili strategie per i tre principali attori dello scenario politico italiano, può essere allora utile misurarle rispetto a una dimensione, essenziale a ogni sviluppo strategico: quella del tempo. Ogni strategia, infatti, si sviluppa nel tempo, e si può dire che la differenza essenziale tra la dimensione tattica e quella strategica si giochi proprio sulla diversa importanza di questo fattore: la tattica parte da una situazione data e vi incide in un periodo limitato e sostanzialmente unitario, la strategia parte da un quadro generale che si sviluppa in gran parte autonomamente e tutte le azioni intraprese dai diversi attori hanno effetti che si dispiegano lungo archi temporali diversi e collegati.

Sembra chiaro che il PDL non possa che essere danneggiato dal passare del tempo: da una parte, le minacce giudiziarie prendono sempre più corpo, dall'altra un Parlamento maggioritariamente ostile, con forze che devono comunque motivare la loro esistenza, prima o poi dovrà prendere provvedimenti assai pericolosi per il loro leader. Anche il forte consenso ottenuto nelle ultime elezioni, e che si è presumibilmente rafforzato nelle ultime settimane, può cominciare a erodersi di fronte al crescente isolamento politico. Proprio per questo, il centrodestra ha ogni vantaggio a che si arrivi al più presto a un governo di compromesso o a nuove elezioni, approfittando della confusione tra le fila dell'avversario principale.

Anche per il movimento cinque stelle più il tempo passa, più le cose si complicano, e su diversi fronti. Innanzitutto, la tenuta del gruppo parlamentare non è affatto garantita, come si è visto in queste settimane; il processo di elezione del presidente della Repubblica, l'attività legislativa, le attenzioni dei media sono altrettanti pericoli per la leadership monocratica del movimento. C'è poi il logoramento che subisce ogni strategia basata unicamente sull'attacco continuo a tutti i costi: all'inizio possono essere conseguiti grandi risultati, ma a lungo andare diventa sempre più difficile controllare il terreno guadagnato e conservare la spinta offensiva, mentre il nemico si riorganizza. A questo si aggiunge il dato strutturale dell'urgenza della crisi economica e sociale, che richiede soluzioni reali e riconoscibili, e che può spingere buona parte dell'elettorato di protesta a cercare opzioni più pragmatiche. Se l'erosione del consenso elettorale può non essere un grande problema per un partito non interessato al governo, almeno nelle sue forme istituzionali, la possibilità di recuperare voti può rafforzare gli avversari.

Il PD, ovviamente, non si trova nella posizione di poter trarre il massimo vantaggio dall'uso accorto di tattiche dilatorie. Le fratture al suo interno, le impazienze renziane, le faide per la successione di Bersani rendono molto difficile l'utilizzo del fattore tempo, per il quale la compattezza sul fronte interno è un fattore necessario, se non indispensabile. L'unico modo per superare questa difficoltà e per non logorarsi quanto gli avversari è la definizione di una linea di condotta rigorosa e condivisa, il che pare al di là della portata del partito democratico: la delusione per la mancata vittoria elettorale e lo spaesamento per un quadro politico che non sembra offrire alternative tra alleanze improponibili o impossibili e il voto, con la congerie di assestamenti interni, primarie e altri disastri che lo accompagnerebbero, impongono al PD un senso di urgenza forse eccessivo.

Eppure, la faccenda sarebbe chiara: si tratta di farsi rinnovare il mandato esplorativo per cercare la fiducia in Parlamento, passare a Montecitorio, correre l'alea in Senato e rimanere eventualmente in carica per il disbrigo degli affari correnti, gestendo la partita del Quirinale e lasciando alle camere il compito di trovare l'accordo su progetti concreti, fino a sparigliare le carte e ottenere una fiducia piena. Per questo, sarebbe opportuno vedere il bluff di M5S e mettere al più presto al lavoro il Parlamento, per scollare i gruppi parlamentari dal guru e trovare aperture nella prassi quotidiana. Allo stesso tempo, sarebbe imperativo eleggere un Presidente della Repubblica autorevole, non troppo legato a qualche partito ma dotata di una forte identità politica di sinistra: per esempio uno come Rodotà. o come Barbara Spinelli, che possano essere   indigesti al punto giusto al PDL e che rendano abbastanza difficile il niet dei pentastellati.

In questo modo, si potrebbe dare alla legislatura il tempo di svilupparsi con iniziative pragmatiche e incisive, proprio in virtù della mancanza di una maggioranza stabile, mettendo Renzi nell'angolo e riassestando il partito democratico verso una successione solida e credibile, mentre gli avversari si sfarinano. Ma applicare un simile progetto è forse inconciliabile con il tragico autolesionismo piddino.

domenica 7 aprile 2013

Ridursi per purificarsi

Il fallimento dei diversi tentativi di trovare una forma di mediazione con il movimento cinque stelle ha una spiegazione assai semplice: tale movimento è alieno da qualsiasi mediazione. Ciò trova una spiegazione ufficiale nelle dichiarazioni del suo proprietario e dei suoi accoliti maggiormente fidelizzati o fanatizzati, che consiste nella litania della diversità, dell'irriducibilità e della superiorità: da ciò conseguirebbe la refrattarietà a qualsiasi alleanza con soggetti diversi, e pertanto infidi.
Se questo comportamento è spiegabile, nei termini della psicopatologia, come risultato di una sindrome paranoica, come sostiene con dovizia di argomenti Malvino, qui interessa comprenderne le linee strategiche, più che comprenderne i motivi. Ogni normale partito politico, infatti, dopo aver conseguito un forte consenso elettorale, tende a capitalizzare tale risultato (o, il che è lo stesso, a esercitare il mandato degli elettori secondo le logiche della democrazia rappresentativa) per insediarsi al governo o, per lo meno, per contribuire a indirizzarne le politiche. I pentastellati, invece, si arroccano, si riuniscono in improbabili convegni a metà tra la riunione segreta e la gita fuori porta, si limitano a ribadire la loro estraneità tanto da cortocircuitare la loro (ampia) retorica e (limitata) prassi della trasparenza, fino a utilizzare le due soluzioni estreme della comunicazione pubblica: ribadire la propria purezza nella forma evangelica del chi non è con me è contro di me, e parlare d'altro, per esempio del Monte dei Paschi.
Il dato interessante, a cui non mi pare si faccia sufficiente attenzione, è che questo comportamento è del tutto opposto a quello adottato in Sicilia, dove il M5S è, di fatto, parte della maggioranza di governo, e dove tale partecipazione viene rivendicata, nelle parole del proprietario del movimento e dei suoi più illustri fiancheggiatori. In altre parole, e mi sembra chiaro che questo debba essere stato il pensiero dei vertici del PD, il modello siciliano poteva essere visto come il precedente a cui rifarsi, se non come l'incubatore di un possibile governo nazionale.
Se non è accaduto così non è, credo, per una forma di schizofrenia da parte di un soggetto politico che pensa in un modo a Palermo e in un altro a Roma, o perché con il 15 per cento ci si comporta in un modo e con il 25 in un altro: la prima interpretazione mi pare troppo psicologica, la seconda troppo politica. Credo che si tratti di una questione di egemonia, sulla scena politica e, soprattutto, all'interno del M5S, che proprio per i suoi risultati elettorali si sta trasformando, di necessità, da aggregato eterogeneo tenuto insieme da un leader carismatico in soggetto politico a tutti gli effetti. La caratteristica primaria di un soggetto politico, infatti, anche quando esso sia maggiormente caratterizzato dal leaderismo e dal culto della personalità, è proprio la sua pluralità: per quanto sia importante il leader, in esso esistono altre personalità, diverse specializzazioni e diverse opzioni tattiche e persino strategiche. Accade oggi nel PDL, per esempio, come è accaduto nel PCUS staliniano o nella NSDAP, per quanto tutte queste formazioni fossero indubbiamente dominate da un leader carismatico.
In altre parole, un M5S coinvolto nel governo a livello nazionale dovrebbe fare i conti con istanze, modalità e tempi decisionali diversi da quelli interni, il che renderebbe necessario lo sviluppo di strutture e di deleghe personali tali da trasformare la natura profonda del movimento stesso, verso una maggiore pluralità, una più ampia e visibile dialettica e, persino, un diverso rapporto con i media. Se già i due improbabili capigruppo parlamentari stanno esprimendo differenze e disagi, ci si può immaginare cosa accadrebbe con un ministro o un rappresentante in una commissione governativa.
L'arroccamento del movimento, la sua litania di intransigenza e le continue scomuniche del proprietario verso chi si distanzia dalla linea ufficiale rispondono, insomma, essenzialmente a esigenze di controllo interno, per bloccare l'evoluzione del M5S verso la forma di soggetto politico plurale. A queste condizioni, una forte riduzione del consenso elettorale non sarebbe vista come una sconfitta ma come un necessario passaggio di depurazione, per ribadire la litania di alterità ed estraneità e consolidare l'assetto monolitico del movimento.
Qui, se si vuole, si può misurare la pochezza delle capacità strategiche del proprietario, che si preclude di fatto ogni possibilità di accesso al potere, o di azione concreta sulle cose, pur di conservare il proprio predominio. Se è possibile governare in Sicilia, ciò avviene perché il livello locale non interessa al proprietario, che comunica direttamente con le masse per via diretta, con i suoi comizi nelle piazze e sul suo similblog, o per via indiretta, attraverso le televisioni che riportano i suoi slogan e la sua estetica. Partecipare al governo del Paese creerebbe, necessariamente, una moltiplicazione dei canali di comunicazione e dei soggetti che vi avrebbero accesso, mettendo in crisi un modello di leadership che si definisce, più che secondo le categorie classiche della politica, secondo quelle del marketing, e nemmeno di quello più moderno: l'importante è controllare il brand e trasmetterlo, impedendo a chiunque di contribuire a determinarlo.

venerdì 3 settembre 2010

Memoria volatile

La forza del digitale come sistema di riproduzione e archiviazione non sta nella qualità delle singole copie ma nella loro infinita riproducibilità senza residuo: è luogo comune che un prodotto digitale, non appena immesso in circolazione, si moltiplichi indefinitamente e sia pertanto rintracciabile con estrema facilità, dal momento che ogni riproduzione è archiviata in un punto connesso a tutti gli altri.
Fin qui il luogo comune, appunto; è interessante, allora, trovare esempi a contrario. Uno, macroscopico, è quello dello spettacolo "Why be extraordinary when you can be yourself", che ha girato tutto il mondo ed è stato acclamato per una coreografia che, tra le altre cose, intersecava i movimenti dei danzatori con proiezioni digitali. Ebbene, tutto quello che si trova è qualche breve video su youtube, breve e di qualità non eccelsa: chi non era lì quando lo spettacolo era in scena non può vederlo né, con ogni probabilità, potrà mai farlo.
Tutto questo perché la società di produzione, che ovviamente aveva realizzato una lussuosa ripresa integrale con quattro telecamere in alta definizione, è nel frattempo fallita, e i master delle riprese e del montaggio sono stati inghiottiti nel vortice conseguente alla catastrofe societaria. Evidentemente, l'ansia di proteggere il prodotto e la scarsa generosità di chi, pur con il disastro alle porte, non ha pensato di condividere un lavoro ormai privo di ogni valore monetario, o la protervia del curatore fallimentare che non ha voluto danneggiare un asset, hanno cancellato ogni traccia dalla memoria collettiva.
Per meglio dire, ci sono le recensioni e le testimonianze, ma tutto quello che resta sono appunto queste tracce scritte, alcune foto, qualche filmato amatoriale e un paio di backstage, a riprova del fatto che la memoria digitale è volatile quanto ogni altra, se non si innescano quei processi di condivisione che ne permettono l'esistenza sociale, e dunque l'esistenza effettiva come memoria. Ciò potrebbe anche suggerire che le riproduzioni non autorizzate, vale a dire la messa in atto della potenzialità più tipica del digitale, sono delle forme fondamentali di esistenza sociale.

domenica 29 agosto 2010

La prode Germania

Romano Prodi, sul Messaggero di oggi, scrive il solito articolo sulla Germania, i cui contenuti possono essere facilmente sintetizzati: l''economia tedesca esercita una indubbia leadership in Europa, con una performance che deve molto all'integrazione europea. Pertanto, è loro interesse colmare il vuoto politico e decisionale oggi presente nelle istituzioni europee con un maggiore protagonismo, di cui c'è un gran bisogno per far ripartire un progetto comune, anche se sembra in Germania sembra prevalere, tanto nell'opinione pubblica quanto tra i decisori politici ed economici, un certo scetticismo, se non una tendenza quasi separatista.
Ora, se è chiaro che la leadership tedesca è un dato di fatto, lo è anche la fisionomia della Germania moderna, che ha rinunciato programmaticamente a ogni ruolo egemone in politica per concentrarsi sullo sviluppo economico e sociale. Se è vero che la società tedesca non può accontentarsi di quello che ha raggiunto, i suoi sforzi di innovazione e sviluppo passano in primo luogo per il rilancio del famoso modello dell'economia sociale di mercato, che negli ultimi anni è stato fortemente intaccato.
Proprio su questo modello, e non sul messianismo di una guida politica, si gioca la vera proposta che la Germania può fare all'Europa: in questo senso, la sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe, che ha affermato la prevalenza delle normative nazionali su quelle comunitarie in virtù di un loro più forte mandato democratico, non costituisce, come sembra pensare Prodi, un punto di arresto ma una base di partenza. Questa sentenza è un potente meccanismo di difesa dell'economia sociale in una temperie politica in cui prevalgono altri modelli, quelli polverizzati dalla crisi finanziaria globale; soprattutto, essa sfida le istituzioni europee sul piano della loro legittimazione democratica, mettendone a nudo l'essenza di strumenti decisionali dall'alto, governati da un'oligarchia che non ha nessun interesse a promuovere uno sviluppo sostenibile e condiviso.
In altre parole, non si può chiedere al governo Merkel, o a qualsiasi altro governo tedesco, di riformare l'asse con la Francia e dettare l'agenda comune, e non solo perché l'attuale governo francese è palesemente inadatto. Quello che va fatto, se si vuole davvero utilizzare la forza tedesca per risollevare l'Europa, è riprendere il modello sociale ed economico di maggiore successo nei Paesi avanzati e condividerlo su scala comunitaria, sulla base di una maggiore integrazione democratica: solo in questo modo la Germania può esercitare una leadership che non si trasformi in egemonia, e che vada a beneficio di tutti.
Ma per farlo, è necessario "diventare tedeschi", obbligando tutti gli attori sociali, e in primo luogo le imprese, ad assumersi le loro responsabilità.

mercoledì 25 agosto 2010

A margine di Malvino

Pochi argomenti sono più fecondi nel suscitare dibattiti della faccenda tra Israele e Palestina. Il fatto che anche su questo argomento si riescano a dire cose sensate e in modo civile, è una ulteriore riprova della straordinaria qualità di Malvino. Provo a dire due cose postate anche lì.

In guerra, esprimere un giudizio, e pertanto schierarsi da una parte o dall'altra in seguito a considerazioni razionali, è difficile per due ordini di motivi: in primo luogo perché le considerazioni morali sono difficilmente districabili da quelle pragmatiche; infatti, dal momento che meno dura una guerra meglio è, per cui ogni impiego soverchiante della forza, in quanto accelera la fine del conflitto, è allo stesso tempo giusto e utile, ma implica un sovrappiù di distruzione che può essere inaccettabile dal punto di vista etico e persino da quello tattico. In secondo luogo, perché i giudizi sulla guerra, come ha ben argomentato Micahel Walzer, anche quando si vogliano puramente morali, devono necessariamente distinguere tra ius ante bellum, in bello e post bellum. Ad esempio, è chiaro che durante la Seconda Guerra Mondiale gli alleati fossero dalla parte giusta e che ogni sforzo fosse giustificabile di fronte alla minaccia di asservimento o sterminio per intere popolazioni; d'altra parte, alcune azioni sistematicamente intraprese dagli alleati (i bombardamenti delle città tedesche e giapponesi da parte angloamericana, le vessazioni della popolazione tedesca e dei prigionieri di guerra da parte sovietica) siano state ingiustificabili crimini di guerra.
Nel caso del conflitto israelo-palestinese, mi pare che vi si commettano spesso diversi errori di giudizio, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione. In primo luogo, i torti e le ragioni vengono attribuiti in modo sproporzionato sulla base di un evento originario, messo a nudo il quale ci si possa schierare in modo definitivo. Al di là del fatto che non si tratta di una ricerca neutrale ma di poco più che di una petizione di principio, il problema strutturale è l’inadeguatezza di questo approccio, che finisce per perdere di vista il quadro generale, in cui più che le cause iniziali contano le finalità effettivamente perseguite. Per tornare al caso classico della Seconda Guerra Mondiale, a definire il regime nazista come nemico dell’umanità stessa non è stata l’illegittimità dell’invasione della Polonia, quanto la sua politica razziale e genocida; ciò vale anche al di là delle specifiche intenzioni dei belligeranti, che almeno in un primo momento si erano mobilitati per ragioni di alleanza e non per difendere gli ebrei di Varsavia, di cui, in tutta franchezza, non sembra che a Churchill importasse poi molto.
Il secondo errore di impostazione riguarda la mancata distinzione degli aspetti ante bellum e in bello, vale a dire la bontà delle ragioni con cui israeliani e palestinesi sostengono la loro causa rispetto alle modalità con cui conducono il conflitto. Chiunque sostenga la causa israeliana non può che condannare la complicità nelle stragi di Sabra e Chatila, così come qualsiasi filo palestinese dotato di un minimo di razionalità non può che rifiutare i massacri di civili israeliani, con attentati suicidi o altri mezzi; sembra però che tutto il gioco sia nel trovare giustificazioni per la propria parte, come se fosse inconcepibile che la parte giusta possa commettere dei crimini ingiustificabili, quando la storia mostra una messe sterminata di esempi contrari.
Certo, il problema sta tutto nel decidere se la somma dei crimini prodotta dalla parte che si riconosce come giusta si bilanci con quelli degli altri e quando essa possa essere tale da inficiare le ragioni iniziali. In ogni caso, dirimente non è tanto chi avesse ragione in un dato momento del passato, ma quale configurazione ci si potrebbe aspettare in caso di vittoria totale di una delle due parti, e quali obiettivi vengono concretamente perseguiti, sia nella condotta della guerra, sia nella definizione della vittoria.
Con questo tipo di approccio, l’esame dei fatti per come li conosco mi mette indubbiamente dalla parte di Israele, ma ciò non impedisce che possa riscontrarne gli errori tattici (la maniera dilettantesca con cui è avvenuto l’abbordaggio alla Mavi Marmara e la conseguente strage evitabile), le violazioni più o meno occasionali e non adeguatamente investigate e punite (vessazioni verso la popolazione palestinese e in particolare di quella di Gaza), i veri e propri crimini (la citata acquiescenza verso i falangisti libanesi a Sabra e Chatila), le politiche non condivisibili (la colonizzazione sistematica di territori palestinesi da parte dei gruppi più sgradevoli della popolazione israeliana).

lunedì 23 agosto 2010

Individuo a chi?

Siamo portati a pensare che ogni essere umano sia dotato di coscienza e personalità, per il solo fatto di esprimersi attraverso il linguaggio: che lo si veda coinvolto nella prospettiva religiosa dell'economia della salvezza o in quella illuministica dell'adesione a una massima morale che ne orienti il giudizio e le azioni, si dà sempre per scontato che vi sia un piano di responsabilità a cui aderisce a pieno titolo. Tutto ciò trova la sua espressione più neutra e razionale, e pertanto più adatta a metterne a nudo il nucleo metafisico e l'astrazione fondante, nella nozione di individuo, inteso come il residuo sostanziale ineliminabile di un processo di divisione: l'individuo, dunque, sarebbe il costituente primo e la base concreta di ogni aggregato, e dovrebbe pertanto essere dotato, ontologicamente, di tutte le proprietà che si riscontrano, in forme più complesse, nell'aggregato sociale stesso.
Se questa concezione ha il pregio di essere intuitivamente semplice, essa sembra presupporre un po' troppo: la coscienza, per definizione, descrive una forma relazionale, con la quale un soggetto stabilisce un rapporto con un altro da sé, e a partire da questa alterità si costituisce come se stesso. Per esplicitare meglio la questione, le modalità di formazione della coscienza attraverso gli sviluppi dell'esperienza percettiva e dell'autocoscienza nella duplice configurazione storica della lotta per il riconoscimento e del lavoro, per come sono descritte nella Fenomenologia dello spirito, possono fare tranquillamente a meno di ogni ipostasi ontologica. 
In questo modo, riconducendo le strutture della coscienza a una dialettica costitutiva e a un piano relazionale che non si esaurisce nella costituzione dell'individuo, diviene possibile raggiungere due risultati estremamente significativi: in primo luogo, si elimina il bisogno di riferirsi a condizioni date trascendentalmente, con tutto ciò che comporta in termini di dottrina dell'anima o di attributi generali, che a loro volta dovrebbero ricollocare l'individuo come semplice caso individuale di una specie universale (come accade definendo la coscienza come attributo "umano").  In secondo luogo, viene meglio rispecchiata la forma relazionale e la struttura pragmatica della coscienza, il cui ambito di pertinenza è sempre intersoggettivo e storico, anzi, formatore della storia stessa. La coscienza come processo e come risultato, dunque come realtà pragmatica, è tanto il prodotto di una formazione quanto il soggetto che agisce una formazione, oggetto sociale e soggetto collettivo.
A queste condizioni, la coscienza non è più un attributo dell'individualità, ma un prodotto in continua evoluzione, la cui datità non può essere scontata. Ciò significa che essa non è più un attributo esclusivamente umano, nel duplice senso che non a tutti gli uomini può essere attribuito un uguale grado di sviluppo della coscienza e che esso può essere riconosciuto anche agli animali, per lo meno come consapevolezza della propria esistenza e delle proprie azioni. Questo paradigma, oltre a rendere superflua ogni concezione trascendente, permette anche di capire come una così gran parte dell'umanità possa vivere senza esercitare alcuna funzione coscienziale evoluta, come la capacità di giudicare le proprie azioni in termini generali o di interrogarsi circa il senso degli eventi.

venerdì 20 agosto 2010

Il nocciolo della questione

Se ogni società in ogni epoca storica funziona in base alle proprie articolazioni di potere, e se la logica di queste  articolazioni è quella della loro espansione, o per lo meno della loro conservazione, se, in altre parole, ogni società storica è una ecologia di poteri, allora le diverse modalità prevalenti di questo funzionamento definiscono le diverse formazioni sociali.
Una delle caratteristiche principali, in questo senso, è data dalle istanze a cui queste articolazioni si rivolgono nel loro operare reale, vale a dire dagli interlocutori sociali da cui traggono la loro ragion d'essere reale e, pertanto, la loro capacità di sostenersi o rafforzarsi. Queste istanze appartengono a due tipi fondamentali: quelle che fanno a capo alla società nel suo complesso, e che si definiscono come cittadinanza, e quelle che fanno capo ad altre articolazioni di potere in quanto autonome dalla società, e che si definiscono come corporazioni.
Quanto più una società funziona in termini di cittadinanza, tanto più essa ha bisogno di trasparenza, visto che soltanto rendendo accessibili e valutabili le informazioni i meccanismi di potere possono essere legittimati; ecco allora che una società di questo tipo tende a essere accessibile, dinamica e partecipata, e che le sue articolazioni di potere possono presentarsi come universali e insuperabili, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Invece, quando funziona in modo corporativo, essa tende a privilegiare l'opacità, visto che i sistemi di legittimazione sono lontani dalla società nel suo complesso; si produce, di conseguenza, una propensione alla consorteria, all'immobilità e all'esclusione, che salvaguarda l'inaccessibilità dei poteri attraverso l'elaborazione di una rete di rapporti con la società in generale tutta basata sull'endiadi di cooptazione (collaborazione, cointeressenza) e opposizione.
Questo è il modo in cui funzionano tutte le istituzioni italiane: dalla politica alle professioni, dall'università all'impresa, il modello corporativo non ha alternative, nemmeno di tipo culturale. Questa continuità e pervasività di un modello unico ne segnano, a un tempo, la completa solidalità tra le parti e l'estrema capacità di assorbire le vicende storiche, senza che si veda una qualche via d'uscita.

mercoledì 18 agosto 2010

La sinistra, roba da ricchi

In Fortunes of Change: The Rise of the Liberal Rich and the Remaking of America, David Callahan sostiene una duplice tesi, secondo la quale negli ultimi anni i ricchi avrebbero sostenuto economicamente i democratici più che i repubblicani, mentre le scelte politiche dei democratici si sarebbero spostate sempre più "a sinistra",  vale a dire su orientamenti più liberal. 
James Ledbetter, su Slate, riporta l'analisi di Callahan e ne confuta la seconda parte, con argomenti decisivi: certo, la nuova generazione di ultramilionari americani si è arricchita in settori legati all'economia della conoscenza, alla finanza e alle comunicazioni, proviene in buona parte da università delle due coste dall'orientamento liberal, e ciò produce indubbiamente due conseguenze fondamentali. Da un lato, rispetto alla precedente generazione di capitani d'industria, le loro priorità sono meno per la deregulation dei mercati e per le politiche antisindacali e più per lo sviluppo di una serie di caratteristiche che possono essere prodotte solo da un governo efficiente e ben presente, come una forza lavoro qualificata, buone infrastrutture e mercati affidabili; dall'altro, questa nuova generazione ha un orientamento culturale progressista verso le questioni di genere, la società multietnica, i temi ambientali.
Tutto ciò, nel panorama politico americano, è in linea con le proposte dei democratici. Ma sui temi più classicamente sociali ed economici, dalla spesa militare ai diritti dei lavoratori, da una distribuzione equa dei sacrifici in tempi di crisi all'applicazione di politiche ambientali restrittive per l'industria, i democratici hanno sistematicamente sposato la linea dei repubblicani. In altre parole, non esiste alcuna differenza tra i due maggiori partiti quando si tratta di favorire il capitale, e soprattutto il grande capitale: lo mostrano i salvataggi della finanza, a cui l'attuale governo democratico si è prestato con estrema generosità e senza negoziare alcuna contropartita reale, anche a costo di sfidare l'indignazione dell'opinione pubblica.
Tutto ciò non è privo di interessi per la situazione italiana: qui non si ha certo a che fare con una generazione di imprenditori innovativi, giovani e aperti, ma con un gruppo di potere che sfrutta rendite di posizione e accordi incestuosi tra impresa, finanza e politica. Se anche in Italia i due poli, che sono ampiamente sovrapponibili ai due maggiori partiti americani, fanno a gara nel facilitare la vita alle imprese e a liberarle da ogni vincolo sociale, è difficile pensare che i grandi ricchi italiani siano interessati a un'offerta culturale progressista, che del resto l'attuale partito democratico è ben lungi dal proporre. Se non altro per motivi utilitaristi, allora, sarebbe il caso di spostare le proprie attenzioni verso blocchi sociali diversi, e magari anche di proporre opzioni politiche differenti dall'infruttuoso corteggiamento dei quattrini.

lunedì 16 agosto 2010

La scena primaria

Spiegare, secondo la prassi comune e la comprensione teoretica prevalente, significa ricondurre un effetto a una causa: una Ursache, vale a dire una cosa originaria, una datità prima che, una volta individuata, risalterebbe con un'evidenza capace di trasmettersi in modo lineare a ciò che ne segue. La verità, o per lo meno il senso, si troverebbero secondo questo paradigma dietro, sotto o prima della superficie delle cose, come un sistema di cause capace di strutturare e di fondare il mondo degli effetti. 
Questo modello di rappresentazione è talmente onnipresente da sembrare la cosa stessa: in questo precipitare in unità di verità, causa, fondamento ed essere si ricapitolano, assieme, il discorso ordinario, la fede religiosa, il metodo classico delle scienze e persino gran parte delle forme del pensiero filosofico. Forse mai questa unificazione è stata visibile come nella fenomenologia: la messa tra parentesi della Lebenswelt ne trasforma i contenuti e l'orientamento, ma ne mantiene il presupposto strutturale di continuità lineare del mondo, fino a risolversi in una ricerca dell'evidenza pura, la cui luce dovrebbe potersi trasmettere a tutta la catena dei vissuti; proprio questo atteggiamento nei confronti della verità sembrerebbe allora la chiave per comprendere come si sia potuta trasformare in senso ontologico e in apologetica del fondamento.
Se questo paradigma è prevalente, non significa però che sia privo di alternative. In altre parole, se la tesi appena riassunta pone la verità a monte di ciò che è immediatamente dato, è possibile proporne una che la ponga a valle, come risultato e non come presupposto, come effetto e non come causa. Si tratta di un approccio che vanta illustrissimi referenti, e che si caratterizza per una modalità pragmatica più che semplicemente teoretica: in esso, non ne va tanto della visione che coglie la verità nell’essere, quanto di un’azione che la produce, e di un pensiero teso a fuggire l’astratto e a cogliere il concreto. In altre parole, comprendere e spiegare divengono funzioni attive, che interagiscono costantemente con il loro oggetto in vista di un risultato necessariamente storico.
Ciò comporta una marcata diversità nell’atteggiamento extrateorico, vale a dire nella definizione della posta in gioco dell’attività del comprendere: da una parte, si mira a conseguire un punto originario, per risolvere i problemi cogenti, a seconda dei casi, con il ritorno a una purezza perduta o con la soluzione di un problema a monte. Nell’altro, si mira a individuare le linee di trasformazione per agire su di esse, a definire la situazione problematica nei termini delle sue diverse evoluzioni, a elaborare possibili risposte in un quadro in costante mutazione. La teoria si innesta direttamente sulla prassi come strategia, e questa trasformazione della sua pragmatica si declina, di necessità, anche sui suoi assunti logici.

Gallerie

In Post mortem di Yoram Kaniuk ricorre una stantia facezia attribuita al padre del protagonista, come unica barzelletta raccontata da un esemplare intelletto vigile quanto tormentato. Racconta del modo in cui si fanno le gallerie: gli americani, che negli anni del racconto erano il prototipo dell'efficienza tecnologica, mettono ai due capi della montagna squadre di ingegneri estremamente competenti, con macchinari estremamente avanzati e piani estremamente dettagliati; iniziano a scavare contemporaneamente per incontrarsi, infine, nel punto e nel momento previsti. I cinesi, invece, mettono un milione di uomini con pale e picconi da una parte della montagna e un altro milione dall'altra: se si incontrano, si ha una galleria, altrimenti se ne hanno due.
La facezia non è particolarmente divertente, ma ha il merito di illustrare una realtà che lo è ancora meno: se negli anni Cinquanta l'ammirazione per il progresso occidentale veniva compensata da quella per l'alacrità cinese, oggi il primo e la seconda si confondono nel calcolo contabile della convenienza dei diversi processi. In Cina si produce con modalità altamente inefficienti, secondo standard scadenti e con immensi costi sociali e ambientali, ma il bassissimo prezzo delle forze di lavoro è tale da compensare a usura gli investimenti necessari a produrre in modo migliore. Il segreto del travolgente successo del modello cinese starebbe tutto nella sua sostanziale arretratezza, che lo porta ad avere una maggiore intensità di lavoro non qualificato, tanto che le inefficienze del sistema, nella misura in cui rendono possibile l'utilizzo di una manodopera non specializzata, ne sono il punto di forza.
Tutto ciò confuta la corrente apologetica del progresso e dell'economia della conoscenza, che fanno dell'innovazione, della qualità totale, dell'efficienza, della formazione continua e della trasparenza tanto il punto di forza quanto il portato necessario dello sviluppo economico, mentre conferma l'ovvietà che lo sviluppo economico, nell'attuale modello, non misura altro se non i profitti, e che ciò che da un lato si chiama profitto dall'altro è sfruttamento. Andando un po' più a fondo, con la speranza di non perdersi in una galleria, si vede come questo modello si basi sull'astrazione del prezzo corrente come unico criterio di misurazione: se produrre uno spillo costa in Occidente 1 ora di lavoro e in Cina 3, è sufficiente che il costo del lavoro cinese sia inferiore a un terzo di quello occidentale per renderlo più conveniente. Tutto ciò a condizione che i costi ambientali, sociali e civili di questo divario siano derubricati come esternalità, altrimenti i conti salterebbero: se la logica, e la convenienza, di questo sistema sono senz'altro comprensibili per chi investe il denaro, si capisce molto meno come ciò possa essere accettato dall'insieme sociale e, addirittura, proposto come modello unico.
Spingendosi ancora un po' più in là nella galleria si trova, come è inevitabile in luoghi di lavoro caratterizzati da tanti incidenti, il solito spettro. In questo caso, è il temutissimo spettro marxiano della caduta tendenziale del saggio di profitto: dal momento che il modello organizzativo dell'industria tende ad aumentare sempre più la quota del capitale fisso (tecnologia e impianti) e a ridurre quella del capitale variabile (lavoro), allora il profitto, che si ricava solo dal pluslavoro e quindi dal capitale variabile, tenderebbe a diminuire strutturalmente, portando al collasso del sistema. Si tratta però di caduta tendenziale, perché esiste un modo per contrastarlo, tipicamente aumentando lo sfruttamento esercitato sul lavoro. La novità di questi anni è che il capitale variabile sta tornando di moda, proprio in virtù dell'estremo deprezzamento del lavoro.
Il dato positivo di tutto ciò è che, se davvero viviamo in una riedizione del Diciannovesimo secolo, ci si può dar da fare perché la prossima riedizione del Ventesimo riesca meglio della precedente.